ESG modello virtuoso e opportunità di un vantaggio competitivo.

Tutti vorremmo in un mondo ideale, una finanza virtuosa, un modello di impresa in cui il profitto (senza profitto non esisterebbe l’impresa, la stessa finanza!) va a braccetto con un progetto che, in qualche modo, collabora a rendere la vita delle persone, gli spazi che abitiamo, la qualità dell’aria, dei mari, e chissà quanto altro, migliore!
Insomma, tornare o magari iniziare a percepire l’imprenditore, lo dico in termini ampissimi, come un’entità che in qualche modo ci invita al suo prodotto, ai suoi servizi, per percepire un profitto ma, senza contribuire a quella spiacevole sensazione che auliche volta ha il consumatore, di venire in qualche modo truffato, raggirato, inquinato, spogliato di un diritto, e che diversamente ci ingloba nella sua più ampia visione di miglioramento del mondo.
Attraverso il suo prodotto, i suoi servizi, che io consumatore utilizzo, di cui fruisco, collaboro ad una causa che produrrà del benessere nel mondo e lo produrrà su una moltitudine di soggetti, inteso come comunità e anche su me stesso, e sarà l’eredità di cui beneficeranno le generazioni a venire.
Ecco, questo è sicuramente il quadro idilliaco che deve aver animato l’idea stessa di sostenibilità ambientale, sociale e di governance, acrononimo di ESG, che sin dall’inizio degli anni ’60 del secolo scorso ha iniziato a circolare.
E’ una grande sfida, anzi di più, l’impresa ha una responsabilità cruciale di riconoscere il significato profondo e l’importanza della sostenibilità nel contesto odierno.
I soggetti ‘impresa’ non sono chiamati ad adempiere meramente alle disposizioni ambientali normativamente previste, ma ad abbracciare pienamente i principi di sostenibilità ambientale, sociale e di governance in tutte le dimensioni della loro attività.
E non è poco!
L’impresa oggi deve essere strutturata come mai prima d’ora, deve essere rispondente ai dettami della normativa sulla privacy, a suo vantaggio dotarsi di un modello etico, e adottare le tutele ex legge 231/2001, rispondere alle certificazioni nazionali ed europee, ed ora anche questo nuovo ed ulteriore invito!
E’ sicuramente una sfida ardua, ma ritengo necessaria e che se attuata con criterio, non meramente nell’ottica del ‘greenwashing’ darà un grande ritorno a livello di comunità e anche alla singola impresa virtuosa.
Questo impegno non risponde solo a dettami legislativi o etici però, come dicevamo il profitto è il senso stesso dell’impresa, bisogna considerare che le pratiche sostenibili possono migliorare significativamente l’efficienza operativa, rafforzare la reputazione aziendale, sbloccare l’accesso a nuovi mercati e attirare investitori che danno valore alla sostenibilità.
La sostenibilità può diventare un enorme vantaggio competitivo piuttosto che un semplice obbligo.
A mio parere nella pianificazione strategica di ogni impresa dovrebbe esserci un punto fisso dedicato alle considerazioni ESG, stabilendo obiettivi chiari, misurabili e raggiungibili – ricordiamoci quanto è importante che l’azienda mantenga un’alta credibilità nel mercato in cui opera – obiettivi, dicevamo, che riflettano l’impegno dell’azienda nei confronti della sostenibilità.

ESG dalle radici all’inizio del millennio

Abbiamo accennato che già sin dalla fine degli anni 60 e l’inizio egli anni 70 del secolo scorso si inizia a parlare di ‘impresa sostenibile’.
Tuttavia è con l’inaugurarsi del nuovo millennio che la tematica ESG prende definitivamente corpo e si anima di sostanza.
Nel 2000, le  Nazioni Unite  hanno ospitato i leader mondiali a New York in occasione del Millennium Summit per discutere del loro ruolo evolutivo nel nuovo millennio. Nel corso del vertice, i leader hanno stabilito principi guida su temi quali i diritti umani, le condizioni di lavoro, l’ambiente e la lotta alla corruzione. A seguito del summit sono stati creati gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (OSM) che delineano otto obiettivi di sviluppo internazionale da raggiungere entro il 2015.
Sebbene siano nati per avviare la discussione, gli OSM hanno poi di fatto consentito a nazioni e aziende di parlare in modo molto schietto delle problematiche ESG.
Nello stesso anno venne istituito il Carbon Disclosure Project (CDP). Il CDP ha incoraggiato gli investitori istituzionali a chiedere alle aziende di riferire sul loro impatto climatico. Ciò ha contribuito a normalizzare la pratica della rendicontazione ESG.
Nel 2004, il termine “ESG” è diventato ufficiale dopo la sua prima apparizione nel mainstream in un rapporto intitolato “Who Cares Wins”. Il rapporto illustrava come integrare i fattori ESG nelle operazioni di un’azienda, scomponendo il concetto nelle sue tre componenti fondamentali: ambientale, sociale e di governance (o corporate governance).
Nel 2015 gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) avevano già sostituito gli MDG. Gli SDG delineavano diciassette obiettivi di sostenibilità e stabilivano un piano globale per lo sviluppo sostenibile, con la speranza di migliorare la qualità della vita e raggiungere un futuro più sostenibile entro il 2030.
Sebbene abbiano un ambito più ampio, gli SDG definiscono obiettivi specifici, per l’esattezza 169, con indicatori unici per monitorare i progressi. Con la loro adozione, gli SDG hanno segnato un cambiamento nella mentalità sociopolitica; l’ESG non era più un argomento di discussione, bensì qualcosa che poteva (e doveva) essere misurato.
Quando è scoppiata la pandemia di COVID-19, molti investitori hanno temuto che le aziende avrebbero rinunciato alle loro iniziative ESG per sopravvivere. E anche se questo è avvenuto in alcuni casi, è stata fatta una scoperta interessante: le società con una forte performance ESG erano meglio attrezzate per resistere alla pandemia, poiché avevano già tenuto conto della possibilità di accadimenti potenzialmente catastrofici. 
Nel 2021, l’Unione Europea ha adottato il piano «Fit for 55» che ha l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990. Questo piano, importante per affrontare i cambiamenti climatici, include misure come la promozione di energie pulite, la riduzione dell’inquinamento e l’adozione di trasporti più sostenibili. L’obiettivo è rendere l’Europa “adatta” per affrontare le sfide climatiche e raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi, contenendo l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2 gradi celsius sopra i livelli pre-industriali.
Nel 2020, il Parlamento Europeo ha approvato il Regolamento (UE) 2020/852 o Regolamento Tassonomia. La tassonomia dell’Unione Europea è un sistema di classificazione che identifica settori economici in base al loro impatto ambientale. L’obiettivo è fornire alle imprese e agli investitori un linguaggio comune per individuare le attività economiche ecosostenibili. La tassonomia si articola in sei obiettivi ambientali principali, che comprendono la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici, l’uso sostenibile e la protezione delle risorse idriche, la transizione verso un’economia circolare, la prevenzione e riduzione dell’inquinamento e la protezione della biodiversità. Questo strumento mira a favorire investimenti sostenibili e la transizione verso un’economia verde.
Con l’obiettivo di aumentare il livello trasparenza e comparabilità sulla rendicontazione della sostenibilità delle imprese, nel 2022 la Commissione Europea ha approvato e pubblicato la «Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD)».
La CSRD prevede un’estensione del reporting obbligatorio sulla sostenibilità rispetto all’attuale normativa NFRD (Non-Financial Reporting Directive), coinvolgendo un numero maggiore di aziende rispetto alla precedente direttiva. Secondo l’UE in Europa ad oggi sono circa 11.000 le imprese tenute a redigere una Dichiarazione Non Finanziaria, mentre nel 2026 circa 50.000 imprese saranno tenute ad applicare la CSRD.
Tra le principali novità, la CSRD prevede la necessità di:
eseguire l’analisi di doppia materialità, un processo che valuta sia gli impatti ambientali e sociali di un’azienda (con una prospettiva inside-out), sia come questi fattori possono influenzare le performance finanziarie e operative dell’azienda stessa (prospettiva outside-in), rendicontare i piani dell’impresa atti a garantire che il modello e la strategia aziendali siano compatibili con la transizione verso un’economia sostenibile e in linea con l’accordo di Parigi, fornire una descrizione degli obiettivi connessi alle questioni di sostenibilità definiti dall’impresa e dei progressi da essa realizzati nel conseguimento degli stessi.
La CSRD richiede alle società che rientrano nel suo ambito di applicazione di rendicontare utilizzando i nuovi standard European Sustainability Reporting Standards (ESRS), pubblicati nel 2023 dall’European Financial Reporting Advisory (EFRAG), l’ente di natura tecnica, non politica, che si occupa dei principi contabili a livello europeo. I 12 standard ESRS offrono un quadro di rendicontazione allineato alle norme internazionali, garantendo trasparenza, coerenza e accesso semplificato ai mercati finanziari globali.

E in Italia cosa succede?

Dal 5 gennaio 2023, l’Unione Europea ha implementato la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), una norma che mira a modernizzare e rafforzare le disposizioni sulle informazioni di sostenibilità.
Questa direttiva richiede a un crescente numero aziende di adottare uno strumento di rendicontazione specifico per le questioni ambientali, sociali e di governance. Lo scopo primario della CSRD è migliorare la trasparenza e l’informativa sulla sostenibilità, ponendo maggiore accento sull’importanza delle informazioni ESG nella considerazione dell’affidabilità e dei rischi di una determinata azienda.
Con l’adozione della CSRD da parte delle normative nazionali – Italia compresa – obbligatoria entro il 6 luglio 2024 – il numero di aziende soggette agli obblighi di rendicontazione di sostenibilità aumenterà notevolmente, seguendo una chiara roadmap temporale.

Proviamo a schematizzare:

Dal 1° Gennaio 2025 (esercizio 2024): Grandi imprese già soggette alla NFRD, Enti di interesse Pubblico (EIP) che alla data di chiusura del bilancio, anche su base consolidata, superino:
Il numero medio di 500 dipendenti;
Almeno uno dei seguenti limiti:
§ totale attivo di stato patrimoniale > € 20 mln;
§ ricavi netti > € 40 mln.

Dal 1° Gennaio 2026 (esercizio 2025): Grandi imprese non quotate (anche non soggette alla NFRD), che alla data di chiusura del bilancio, anche su base consolidata, abbiano superato:
Numero medio di 250 dipendenti:
Totale attivo di stato patrimoniale > € 20 mln;
Ricavi netti > € 40 mln.

Dal 1° Gennaio 2027 (esercizio 2026): Piccole e medie imprese (PMI) quotate (escluse le micro imprese), istituti di credito di piccole dimensioni non complessi e le imprese di assicurazione dipendenti da un gruppo.
Le PMI potranno anche optare per un periodo di deroga non adempiendo all’obbligo per un massimo di due anni, dunque fino al 2028 (c.d. Opzione opt-out).

Dal 1° Gennaio 2029 (esercizio 2028): Imprese non appartenenti all’Unione con succursali nell’Unione:
Società extra Unione:
§ con fatturato oltre € 150 mln all’interno dell’Unione per due anni consecutivi;
§ con una subsidiary qualificata come PMI quotata e/o succursale con un fatturato netto oltre € 40 mln per l’esercizio precedente;
PMI quotate che abbiano derogato sulla base dell’opt-out.

SIAMO PRONTI?

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